Cinema giapponese contemporaneo

 

Filmografia del nuovo Sol Levante

 

Verso Oriente: Da Fukushima alle Olimpiadi. Cosa è successo al cinema giapponese negli ultimi dieci anni?

Stefano Locati

Articolo tratto da: FILM TV 14 – 9 – 2021 (qui il Pdf)

 

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Nonostante il successo internazionale di alcuni registi come Ryūsuke Hamaguchi, in Italia il cinema giapponese contemporaneo è largamente ignorato. 

Ci sono naturalmente nomi che fanno parte del repertorio dei cinefili, nella maggior parte dei casi si tratta però di registi già affermati da decenni. Per esempio, Hirokazu Kore-eda, Kiyoshi Kurosawa, Naomi Kawase, Takashi Miike, Sion Sono, Sabu, Shin’ya Tsukamoto, Takeshi Kitano godono di grande stima tra gli appassionati, ma non si può certo considerarli novità. 

 

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Nella loro ombra, rimane poco spazio per il resto del cinema giapponese, che è tanto vitale e sorprendente quanto refrattario all’esposizione mediatica. 

Negli ultimi dieci anni il cinema giapponese è molto cambiato, diventando introspettivo, minimale, quotidiano più di quanto già non fosse. Il terribile terremoto che nel marzo 2011 ha causato uno tsunami e il conseguente disastro al reattore nucleare di Fukushima Dai-ichi è una ferita ancora aperta. Il caos di quei giorni incide profondamente anche sul cinema, non solo in senso letterale, con i tanti film che hanno raccontato il disastro, ma anche metaforico, con film che scavano nelle faglie della contemporaneità giapponese per mettere a nudo ciò che si è incrinato nel rapporto tra i singoli, le istituzioni e la società in generale. 

 

plancia centrale nuceare

 

Il cinema nipponico post Fukushima è quindi un cinema più isolato, quasi marginale, che trasforma questa marginalità in una spinta a indagare negli anfratti dell’inconscio collettivo.

 

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I film che trattano il terremoto, o eventi limitrofi, sono decine: dal toccante. The Land of Hope di Sion Sono (2012) al livido bianco e nero di Tragedy of Japan di Masahiro Kobayashi (2012), passando per il senso di abbandono e disperazione di Odayaka di Nobuteru Uchida (2012) e The City of Love and Hope di Hiroshi Kanno (2013), giù fino alla più recente ricostruzione di denuncia di Fukushima 50 di Setsurō Wakamatsu (2020) e all’elegiaco Voices in the Wind di Nobuhiro Suwa (2020), il più lirico nel collegare diversi aspetti del presente. 

Ma la ferita di Fukushima va oltre questo impegno civico, si trasforma in una modalità che il cinema di ricerca introietta, fosse anche inconsciamente. 

Storie come quella di The Long Excuse di Miwa Nishikawa (2016), con il suo rimestio su perdita, dolore, elaborazione del lutto, o The Ravine of Goodbye di Tatsushi Omori (2013), con il suo coacervo di segreti e verità scomode, sono esempi di questa volontà dissezionatoria. 

 

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Gli autori emersi in questi anni sono molti. 

Oltre a Nishikawa e Omori, altre due certezze sono Kōji Fukada, premio della giuria Un certain regard nel 2016 per Harmonium, e Yūya Ishii, che dopo il relativo successo commerciale di The Great Passage (2013) sembrava essersi perso, ma che ha ritrovato la sua vena agrodolce minimale in The Tokyo Night Sky Is Always the Derisesi Shade of Blue (2017) e All the Things We Never Said (2020). 

Si confermano anche il cantore degli outsider Nobuhiro Yamashita (l’introspettivo Over the fence, del 2016, l’assurdo Hard-Core, del 2018), lo sferragliante Kazuya Shiraishi (che alterna incursioni nel thriller a decostruzioni familiari) e lo stralunato Daihachi Yoshida (dall’imprevedibile trasposizione del romanzo di Yukio Mishima di A Beautiful Star all’esperimento sociale di The Scythian Lamb, entrambi del 2017). 

Ci sono poi il solo apparentemente adolescenziale Daigo Matsui (con le sue buffe commedie salaci), l’ineffabile Sho Miyake (su tutti il ménage à trois di And Your Bird Can Sing, del 2018) e un plotone di agguerrite registe, capeggiate dalla vibrante Yuki Tanada (dalle infedeltà di The Cowards Who Looked to the Sky, del 2012, alle minuzie di Romance Doll, del 2020), la fotografa Mika Ninagawa (con i suoi eccessi cromatici, da Helter Skelter, del 2012, all’inabissamento di Osamu Dazai in No Longer Human, del 2019), la pirotecnica Risa Takeba (con i suoi frammenti onirico-pop) e l’erratica Akiko Ōku (con le sue storie postmoderne di donne confuse e instabili). 

Nel recente cinema giapponese c’è inusualmente spazio anche per l’emarginazione e le minoranze, dal toccante Our Homeland della regista coreana di seconda generazione Yong-hi Yang (2012) all’esordio Complicity di Kei Chikakura (2018), su un migrante illegale cinese, fino alle co-produzioni impossibili di Akio Fujimoto, con il Myanmar di Passage of Life (2017) e con il Vietnam di Along the Sea (2020). 

Anche l’alto numero di esordi che lasciano il segno è indice della vivacità del cinema giapponese: dalla band di orfani di We Are Little Zombies di Makoto Nagahisa (2019) fino al fanta-spericolato Beyond the Infinite Two Minutes di Junta Yamaguchi (2021), passando per i viaggi esistenziali di Blue Hour di Yuko Hakota (2019) e i segreti da bagni pubblici di Melancholic di Seiji Tanaka (2018). 

 

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Come tenere traccia di questi e altri registi? 

Se qualche piccolo frammento passa anche sulle piattaforme (in primis MUBI, ma ultimamente Netflix ha distribuito 37 Seconds di Hikari, Mother di Tatsushi Omori, Ride or Die di Ryuichi Hiroki tutti meritevoli), il luogo più semplice rimangono i festival, in particolare, almeno in Europa, Nippon Connection di Francoforte.

Stefano Locati

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La spada del destino

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La spada del destino. I samurai nel cinema giapponese dalle origini a oggi

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Qualche suggestione: 

 

SEXUAL DRIVE di Kōta Yoshida [2021]  – Dai tempi di Yuriko’s Aroma del 2010, Yoshida si muove tra cinema d’essai e sessualità spinta. In questo suo ultimo film costruisce tre storie pervertite che si basano su parole e messa in scena calibrata: un erotismo mentale che non ha bisogno di nudi. 

 

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SHADY di Ryohei Watanabe [2012] – Una liceale sovrappeso bullizzata stringe inaspettatamente amicizia con la compagna più popolare della scuola. Dietro l’idillio si nasconde un segreto. Lo straniante esordio di Watanabe indaga il lato oscuro dell’amicizia con echi da J-horror.

 

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ANATOMY OF A PAPERCLIP di Akira Ikeda [2013] Kogure lavora in una piccola fabbrica che produce graffette a conduzione familiare, dove è costantemente angheriato da due teppisti. Un giorno si ritrova in casa una donna misteriosa che parla una strana lingua. Un’amara commedia esistenziale grottesca a ritmo di inquadrature fisse.

 

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TAMAKO IN MORATORIUM di Nobuhiro Yamashita [2013]La giovane Tamako si lascia scorrere la vita addosso. Ha finito l’università, non ha un impiego né lo cerca, ed è tornata a vivere da parassita nella casa del padre. Yamashita la racconta con empatia distaccata e acume quasi cinico.

 

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0.5 MM di Momoko Andô [2014]  – Sawa è una badante che per trovare lavoro ricatta alcuni anziani perché l’accolgano in casa e le permettano di accudirli. Saga di oltre tre ore che rifugge l’epica, ma si basa sull’ambiguità della quotidianità.

 

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FORGIVEN CHILDREN di Eisuke Naitò [2020]  – Da bambino Kira è stato bullizzato. Ormai adolescente, diventa carnefice. Un giorno uccide un coetaneo accidentalmente. Lui e la famiglia vengono isolati socialmente. Naitò si disancora dall’horror (frequentato dagli esordi fino al precedente Liverleaf, del 2018) per indagare gli abissi della colpa.

 

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THE DAY OF DESTRUCTION di Toshiaki Toyoda [2020]  – La pandemia, la recessione, la stagnazione sociale: Toyoda attacca tutto e tutti a ritmo di punk-rock, da un plumbeo bianco e nero (con mostro che emerge da una miniera), a colori dalle tonalità mistico-apocalittiche. Un concentrato di simbolismo surreale capace di stordire. 

 

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A GIRL MISSING di Kòji Fukada [2019] – Due piani temporali intrecciati per raccontare la deriva di una donna di mezza età travolta da uno scandalo. L’intensa Mariko Tsutsui ritrae lo spaesamento della donna sdoppiata, grazie alle eleganti ellissi e sfocature di Fukada. 

 

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THREE STORIES OF LOVE di Ryosuke Hashiguchi [2015] – Un vedovo eccentrico, una casalinga trascurata e un avvocato rampante che tiranneggia il suo ragazzo: il ritorno sulle scene di Hashiguchi (All Around Us, 2008) racconta l’assenza dell’amore e il dolore che ne consegue. 

 

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LOVE AT LEAST di Kosai Sekine [2018]  – Tsunagi lavora come redattore in una rivista, mentre Yasuko è affetta da ipersonnia: si incontrano quasi per caso, iniziano a convivere, fino a che gli attriti deflagrano. Verso uno dei finali più strazianti e sinceri del cinema contemporaneo.

 

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