Come guadagnarsi il pane? L’appetito vien leggendo
di Luca Gallarini
Articolo tratto da: Progetto Oblio 2021 (qui il PDF)
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Sei anni ormai sono passati da Expo 2015 (Nutrire il pianeta, energia per la vita), mentre non si contano più le edizioni di Masterchef, i libri di ricette dei vincitori dei talent show e le imprese culinarie à la Bud Spencer di Antonino Cannavacciuolo, o ancora i ristoranti visitati da Alessandro Borghese, rigorosamente quattro alla volta. L’attesa del giudizio di Borghese, che può rovesciare qualsiasi classifica, ha dato vita peraltro a un “meme” che corre sui social in tempo di elezioni: «Nulla è ancora deciso: manca il mio voto…».
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Innumerevoli sono anche gli studi pubblicati, nell’ultimo decennio, sulla rappresentazione del cibo nelle opere letterarie: conseguenza inevitabile della moda del momento, ma anche del desiderio, pienamente legittimo, di approfondire nomi, titoli e luoghi a lungo negletti dalla critica.
Di tutto questo è ben consapevole Luca Clerici, autore di Guadagnarsi il pane. Scrittori italiani e civiltà della tavola: come antipasto al suo saggio, Clerici offre ai lettori una brillante autointervista intitolata → Basta libri di cucina! dove leggiamo che «sul timballo del Gattopardo e sull’importanza del cibo nella narrativa di Gadda» è già stato detto tutto, e che no, l’autore non è parente della celebre Antonella.
Il libro → Guadagnarsi il pane. Scrittori italiani e civiltà della tavola
Scopo di Guadagnarsi il pane è una mappatura sistematica, e decisamente originale, dei rapporti tra gli scrittori italiani (categoria intesa in senso largo: «con il termine scrittori intendo “chi scrive”, e quindi non solo letterati ma anche giornalisti, professionisti che si occupano di cucina pubblicando ricettari e manuali, intellettuali di varia estrazione e – come diremmo oggi – opinionisti esperti del settore», ibid.) e le occasioni professionali che in età moderna gravitano attorno al mondo della gastronomia:
collaborazioni editoriali e giornalistiche, premi letterari, cronache di viaggio o ancora vere e proprie avventure imprenditoriali nel campo della ristorazione.
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Già da queste premesse, appare evidente che il libro di Clerici poggia su una bibliografia critica scrupolosa, accuratamente segnalata in nota, e su una rassegna delle opere letterarie «di interesse enogastronomico».
Abbiamo dunque tra le mani un contenitore di sapide storie, apprezzabili anche da un pubblico non specialistico, ma soprattutto un vademecum imprescindibile per qualsiasi futura ricerca sul tema.
L’indagine di Clerici prende le mosse dalla fine del Settecento, quando a Parigi nascono i primi ristoranti («Prima del 1789 infatti una rigida organizzazione corporativa imponeva a “ristoratori, pasticceri, trattori, osti rosticcieri, ecc. delle distinzioni ben precise, per cui erano obbligati a servire un solo tipo di vivanda”», pp. 11-12) e la comunicazione letteraria comincia a riflettere le nuove dinamiche sociali introdotte dalla Rivoluzione: lettori colti, scrittori borghesi e aristocratici illuminati discutono di letteratura «non più in accademie, salotti d’élite o in club riservati di sangue blu ma in abitazioni private e al ristorante» (p. 12).
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A ciò si aggiunge, in epoca risorgimentale, un’esigenza di «separazione dallo straniero» che si risolve in un invito al convivio entro le mura domestiche, al riparo da occhi e orecchie indiscreti. Ma, come osserva Clerici,
«per offrire pranzi e cene occorre saper cucinare, e allora ecco svilupparsi una produzione editoriale specifica rivolta a un pubblico sempre più ampio» (p. 18).
Dalle opere pensate per la «classe di mezzana fortuna», come L’arte di convitare spiegata al popolo di Giovanni Rajberti (1850) si passerà poi, «in pieno clima positivista», alla «fase postunitaria di alfabetizzazione gastronomica egemonizzata dalla Scienza in cucina» di Pellegrino Artusi (1891), che contribuisce a «“fare gli italiani”, proponendo di stare a tavola con un vocabolario condiviso di ricette centro-settentrionali in alternativa alla cucina francese» (pp. 22-23).
Pellegrino Artusi
Il termine «scienza» rivela l’ancoraggio a una temperie culturale nella quale l’interesse per la gastronomia va di pari passo con l’attenzione alle norme igieniche, oggetto di una vasta produzione divulgativa il cui campione è sicuramente Paolo Mantegazza (Igiene della cucina, 1866; Igiene d’Epicuro, 1872; Dizionario d’igiene per le famiglie, 1881). Al contempo, il passaggio graduale della società da contadina a urbano-industriale impone una ridefinizione del ruolo della donna tra pentole e fornelli:
«la netta divisione del lavoro fra i sessi relega sempre più mogli e madri fra le pareti domestiche idealizzandole, angeli del focolare preposti a officiare la liturgia laica del pranzo in famiglia».
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Per tale funzione nasce una «pubblicistica specifica che [della donna] riconosce il ruolo attivo introducendo in coda ai manuali le pagine bianche su cui annotare i propri piatti, i segreti da sempre passati da madre in figlia» (p. 85). Sulle pagine bianche dei taccuini, invece, i letterati degli anni Trenta fissano le annotazioni delle loro “passeggiate italiane”, riscoprendo, in linea con l’autarchia promossa dal regime, le prelibatezze delle cucine regionali.
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Da questi pochi esempi si intuisce come il libro di Clerici metta in dialogo saperi e sapori diversi – dalla critica letteraria alla sociologia, dall’antropologia alla storia della cultura e della gastronomia – fornendo al lettore molteplici spunti di riflessione.
Ogni dettaglio, anche minimo, richiama potenziali approfondimenti, stimolando la curiosità di chi legge: siamo ben lontani, insomma, da una semplice catalogazione dei riferimenti culinari presenti nella letteratura degli ultimi tre secoli.
Basti pensare a un evento cruciale giustamente ricordato dall’autore: l’apertura a Milano, nel 1957, del primo supermercato alimentare in Italia, ad opera dei Caprotti, soci brianzoli di Nelson Rockfeller (p. 165).
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A questo proposito, procedendo sulla via indicata da Clerici, potremmo aggiungere ai titoli citati nel saggio anche Falce e carrello di Bernardo Caprotti (2007), curioso incrocio di generi diversi: la biografia selettiva del capitano d’industria («Da mio padre e da mia nonna Bettina ho imparato il culto della libertà, dell’indipendenza e la passione per le visual arts, architettura, pittura, grafica, e… l’ossobuco fatto con un’ombra di acciuga») e il pamphlet politico, di taglio conservatore se non addirittura reazionario, proposto ai clienti del supermercato come atto di denuncia contro i concorrenti nel settore della grande distribuzione.
Accanto alla dimensione pluridisciplinare, foriera di sviluppi originali, altro punto forte del libro di Clerici è la ricognizione delle possibilità economiche e promozionali del binomio penna&cucina.
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Tra i numerosi esempi riportati nel libro, spiccano le prodezze alchimistiche di Mantegazza, probabile inventore della Coca Cola («Abile commerciante, ma anzitutto scienziato in carriera, il giovane medico partecipa al dibattito sulla nocività della sostanza e prende posizione a favore della “magica pianta degli Incas”», p. 110);
il famosissimo premio Bagutta, ideato tra i tavoli dell’omonimo ristorante milanese
(«È qui che la piovosa notte dell’11 novembre 1926 per iniziativa di Bacchelli, Orio Vergani […] e Marino Parenti […] nasce il primo premio letterario italiano», p. 39);
l’olio Dante dei fratelli Costa, oggi meglio noti come armatori nel settore croceristico; il formaggio Bel Paese, che prende in prestito il nome dal bestseller di Antonio Stoppani (1876); «La Cucina Italiana» fondata da Umberto Notari e diretta da sua moglie Delia Pavoni; la seconda vita di Giovannino Guareschi, che nel 1957 «apre un locale alle Roncole, a due passi dalla casa natale di Giuseppe Verdi» (p. 49); o ancora i reportages, televisivi e cartacei, di Mario Soldati, «alla ricerca dei cibi genuini» nella valle del Po.
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L’interesse per cibi, vini, pentole e fornelli suggerisce dunque nuove professioni o collaborazioni agli uomini di penna, consentendo loro di «guadagnarsi il pane» (titolo davvero felice), ma di concerto, potremmo aggiungere, indica nuove strade alla penna stessa.
Anzitutto perché permette di rendere più precisi i resoconti di viaggio, tanto più se dall’osservazione svagata si passa, per ragioni geopolitiche, a un’analisi statistica e rigorosa: tra i numerosi esempi ottocenteschi citati e argomentati, si segnala la Descrizione della Sardegna di Francesco D’Austria-Este, che nel 1812 «percorre l’isola in lungo e in largo perché, d’accordo con gli inglesi, intende prenderne possesso a danno dei Savoia» (p. 188).
In secondo luogo, la cultura del cibo facilita le variazioni sul tema dell’elzeviro e della prosa di viaggio, generi molto praticati dai letterati degli anni Trenta, a disagio con le vaste campiture della scrittura romanzesca. Come osserva Clerici, commentando uno dei migliori esempi dell’odeporica tra le due guerre, Il ghiottone errante.
Viaggio gastronomico attraverso l’Italia di Paolo Monelli (1935), «“vedere il mondo sub specie culinae” non significa semplicemente concentrarsi su cibi, vini, trattorie e osti, ma vuol appunto dire leggere la realtà in termini culinari: bevuto il marsala, “vedevo il mondo traverso un vetro arancio, caldo, sontuoso”» (p. 236).
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I riferimenti al cibo corroborano la vena analogica e umoristica del Monelli prosatore d’arte, che associa, per fare alcuni esempi, la città di Orvieto a «una tavola imbandita», un prato primaverile a un piatto di «trenette al pesto» e un vino scadente, sorseggiato mangiando focaccia, all’«impresariuccio striminzito di una donna cannone» (p. 237).
Dove non arrivano le parole subentrano le illustrazioni di Novello, «che nel libro si disegna mingherlino dal profilo appuntito, perso in enormi cantine, lillipuziano sovrastato da botti gigantesche, figurina rapita dal sogno impossibile “del mangiar leggerino”, giusta la didascalia di una delle sue tavole» (Basta libri di cucina!, cit.).
Particolarmente fecondo, per i letterati italiani, si rivela inoltre il genere della ricetta, che impone agli habitués della scrittura lirica di fare i conti con interlocutori estranei alla cerchia delle anime elette, da individuare entro un pubblico potenzialmente molto ampio.
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È possibile scrivere le istruzioni di un piatto a regola d’arte senza fare – per dirla con Stecchetti – esercizi di «cannibalismo», ovvero senza limitarsi a scrivere «prendete il vostro fegato, tagliatelo a fette ecc.»? (p. 79).
La risposta è sì, e anche in questo campo Artusi è un precursore: «A conferire al suo manuale la caratteristica intonazione bonaria è l’ironia, e parallelismi e antitesi governano molti piatti per esempio nella contrapposizione fra dolce e salato.
Le formule culinarie sono poi vivacizzate con apostrofi (“Signor polpettone, venite avanti, non vi peritate; voglio presentare anche voi ai miei lettori”), domande retoriche (“Chi è che non sappia far le frittate? E chi è nel mondo che in vita sua non abbia fatto una qualche frittata?” […]) e prosopopee», grazie alle quali le pietanze si rivolgono direttamente ai lettori («Accoglietemi come piatto di famiglia e perché posso indolcirvi la bocca con poca spesa», p. 308).
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Il testimone della creatività artusiana sarà poi raccolto, idealmente, dal succitato Monelli, che riassumerà così i mille modi di scrivere una ricetta, mescolando nel medesimo piatto – a conferma delle strette relazioni individuate da Clerici tra letteratura e civiltà della tavola – le consuetudini del genere e i più sapidi strumenti della scrittura letteraria: «condite: col sale dell’ironia, il pepe dell’umorismo, l’agrodolce della maldicenza, l’amarognolo del disinganno, la senape dello scandalo e rimestate tenacemente col mestolo dell’esperienza» (pp. 311-312).
Civiltà e cultura della tavola in Italia
Il libro → Guadagnarsi il pane. Scrittori italiani e civiltà della tavola
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