Luci sfuggenti, ombre passeggere. Il libro dei morti di Orikuchi Shinobu

 

di Mattia Natali

Associazione Takamori

Arcipelago Giappone

 

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Evanescente, modernista e attraversato da una perenne, irriducibile tensione tra opposti spesso inconciliabili, “Il libro dei morti” è un’opera di contrasti. Principale creazione letteraria di Orikuchi Shinobu, noto etnologo, accademico e scrittore giapponese, l’opera è segnata indelebilmente dagli interessi e dall’attività di ricerca del suo autore: eccelso esperto del folklore, della storia e dello spirito giapponese, Orikuchi con la sua penna riesce a diradare le nebbie del tempo, tratteggiando con precisione –oltre che con una certa nostalgia – pensieri, emozioni e paesaggi di un mondo ormai passato, sepolto da millenni.

 

Orikuchi Shinobu

 

Ci troviamo nel pieno del periodo Nara, durante l’VIII secolo.

Nel cuore oscuro di una montagna sacra un morto si risveglia all’improvviso dal proprio sonno, non riuscendo a ricordare la propria identità. In un susseguirsi di improvvise e dolorose visioni, sarà il ricordo del volto e del nome di una donna a riportargli la memoria; queste stesse memorie permetteranno inoltre al lettore di ricostruire gradualmente, in una sorta di complesso puzzle di riferimenti dotti, l’identità del defunto.

Nel frattempo, una giovane aristocratica fugge dalla propria dimora nella capitale e, guidata da una forza inspiegabile, si reca in un piccolo monastero ai piedi delle montagne. La storia non si articola in maniera lineare, seguendo il puro ordine cronologico dei fatti: essa è piuttosto scomposta in diversi fili narrativi che si intrecciano continuamente ma che non si svolgono mai nella stessa dimensione temporale se non alla fine dell’opera, donandole un climax risolutivo e totalizzante.

 

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Il lettore si trova quindi avvolto in un’atmosfera onirica, risucchiato in un vortice incessante di riti, visioni e leggende del passato, in un avvicendarsi quasi vertiginoso di apparizioni luminose, bodhisattva, fenomeni naturali, eventi della lussuosa vita di corte e presenze sovrannaturali.

 

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Con i suoi continui balzi temporali, i frequenti cambi di luogo e di prospettiva e l’emergere prepotente delle leggende e dei miti dietro il velo sottile della narrazione, l’opera è caratterizzata da un ritmo segmentato, quasi spezzato, ma non per questo meno fluido e coinvolgente.

La complessa figura dell’autore fornisce chiavi di lettura fondamentali per la comprensione di quest’opera intellettualmente densa, tanto da essere talvolta criticata, nei primi anni, come eccessivamente “oscura”.

Esperto etnologo e folklorista, Orikuchi Shinobu aveva raggiunto una notevole fama grazie alla pubblicazione del Kodai Kenkyū, opera in cui indagava il folklore, le tradizioni e la letteratura del Giappone delle origini e che sarebbe stata destinata a influenzare generazioni di intellettuali giapponesi. Figura eccezionalmente versatile, la sua ricerca spazierà fino a toccare i più svariati temi del Giappone antico, come l’iconografia (in particolare buddhista), l’architettura, la spiritualità e la lingua, in un tentativo perenne di riscoprire e di ricostruire le radici più profonde dell’identità giapponese.

 

 

 

Tutte queste influenze sono ben presenti nel Il libro dei morti di Orikuchi Shinobu, dove le profondissime conoscenze dell’autore permettono di delineare un quadro dettagliato e preziosissimo dell’epoca in questione.

Nel libro troviamo, però, anche la sua concezione della Storia e della maniera in cui essa dovrebbe essere narrata e, in un certo senso, costruita: non semplicemente mediante l’asettica ricostruzione accademica e la fredda analisi delle fonti ma anche attraverso l’immaginazione e il racconto, ricostruendo il passato in maniera forse meno rigorosa ma certamente più sfumata e meno rigida, riportando suggestivamente in scena emozioni e pensieri di ere ormai lontane. L’occhio dell’etnologo è ben presente in tutta l’opera; dietro la frequente e accurata descrizione dei riti popolari e della religiosità dei ceti bassi è infatti evidente lo sguardo attento del folklorista.

 

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La conoscenza approfondita delle credenze popolari è però fusa in un contesto più ampio, che riesce ad amalgamare coerentemente il contesto storico, la realtà quotidiana e la cultura materiale più concreta con la più alta letteratura, le più sofisticate forme di religiosità e le complesse abitudini dell’aristocrazia, ricostruendo efficacemente un mondo incredibilmente complesso e sfaccettato, popolato da personaggi psicologicamente complessi e vivi, che il passare dei secoli non è bastato a rendere opachi.

 

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Proprio questa grande complessità rende possibile quel continuo gioco di contrasti, quell’alternanza di luci e ombre che contrassegna tutta l’opera. In primo luogo tutta la tensione mistica che la anima, materializzandosi in sogni e visioni rifulgenti, è percorsa da un sofferto dualismo:

quello tra gli antichi Dei del Giappone originario ed il Buddhismo arrivato dal Continente.

Il nuovo sembra però prendere il sopravvento sul vecchio; guardati con una certa nostalgia, gli dei degli antichi miti e delle vecchie uji sembrano contrarsi, ritirandosi nello spazio selvaggio dei monti e dei campi. Il Buddhismo è infatti uno dei protagonisti della narrazione che, non a caso, si svolge in buona parte all’interno del perimetro sacro del tempio buddhista del Manhōzō; la trascrizione dei sutra e la preghiera, in particolare in riferimento alla scuola della Terra Pura, ricoprono un’importanza centrale nella narrazione riuscendo a restituire anche la forte carica mistica e l’intensità della visione escatologica che questi nuovi insegnamenti erano in grado di trasmettere quanto meno a una parte della popolazione dell’epoca.

Il Buddha Amida e il suo Paradiso fanno capolino più volte nell’intera opera, fornendo importanti chiavi interpretative della sua dimensione allegorica e spaziale.

 

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Le visioni e i miti delle epoche passate non sono però esclusi dall’opera; al contrario, la loro presenza e interazione con l’elemento buddhista costituisce uno dei leitmotif del romanzo, permeandolo di un’intensa dimensione sciamanica e lasciando spesso intravedere i colori di un’autentica e stratificata spiritualità popolare. I temi trattati non si restringono però alla sola dimensione spirituale; al contrario, la società dell’epoca è delineata in maniera puntuale.

L’autore non si limita a un’analisi isolata dell’aristocrazia – classe dalle cui fila pur viene la protagonista – ma la inquadra nelle sue complesse relazioni con le altre componenti della società, ne indaga il complesso contatto con gli stuoli di inservienti, bonzi e abitanti delle campagne, mette in scena le rigide gerarchie che, manifestandosi anche nei codici linguistici e negli stili di vita, rendono difficoltosa la comunicazione e l’interazione tra i diversi strati sociali, nascondendo l’aristocrazia dietro un – spesso letterale – velo di imperscrutabilità.

Anche la classe aristocratica non appare però come un’entità immobile e monolitica, venendo presentata piuttosto in una continua, sebbene spesso riluttante, trasformazione.

 

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Nella capitale Nara, gli antichi casati aristocratici appaiono ancora legati alle antiche divinità da cui traggono i propri miti fondanti; anche qui però il Buddhismo appare come una presenza dirompente, scandendo con le sue cerimonie e la sua arte la vita della città e caratterizzandone le occasioni sociali.

Anche tra i ricchi palazzi della capitale tutto sembra in evoluzione e il nuovo sfida il vecchio, scalzandolo: sebbene i più nostalgici si aggrappino ostinatamente al passato glorioso dei clan aristocratici sono costretti a osservare impotenti come le vecchie mura di pietra, che un tempo circondavano le case dell’antica aristocrazia proteggendole dagli spiriti maligni, su decreto della corte imperiale siano quasi universalmente scomparse per lasciare il posto a nuove mura di terra – simbolo incontrovertibile della fine dell’era del dominio nobiliare.

A questo mutamento architettonico si accompagna quello, più squisitamente politico e culturale, dell’adozione di pratiche e di idee provenienti dall’Impero Tang che contribuisce a sconvolgere ulteriormente le strutture tradizionali e a mutare profondamente il sistema di governo.

 

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Anche la maniera di trasmettere storie e informazioni cambia drasticamente. Il trionfo della parola scritta e della sua immutabilità tra le classi più elevate emargina gradualmente il mondo della comunicazione orale, un tempo unica preziosa custode dei miti delle casate nobiliari e ora dimenticata e irrimediabilmente in declino. Essa è personificata nella figura misteriosa e quasi evanescente della vecchia cantastorie, vettrice di una sapienza ormai prossima all’oblio. In questo universo quasi indeciso, come sospeso tra due tecniche di comunicazione, ricoprono quindi un ruolo importante sia i frequentissimi riferimenti al mondo della letteratura scritta (costituiti soprattutto da richiami a testi fondanti della letteratura giapponese, come il Man’ yōshū  e il Kojiki, o a testi religiosi buddhisti come il Sutra del loto) che frequenti forme di trasmissione orale del sapere, nella forma di miti e leggende.

Questo mondo sfaccettato e di contrasti non è quindi statico, dipinto come eternamente immobile, ma costituisce al contrario una realtà estremamente dinamica e in continuo mutamento.

Tutto sembra in eterna metamorfosi, sul punto di cedere il passo a qualcosa di nuovo; tutto appare effimero e impermanente. Anche la natura, centrale in tutta la narrazione, è tratteggiata con particolare attenzione nei suoi momenti di cambiamento; il passare di una nuvola sul picco della montagna, lo scorrere di un fiume, il lento mutare delle stagioni ci richiamano più volte alla mente il passare delle cose e l’impermanenza di questo mondo, spesso declinata in un’ottica squisitamente buddhista, contribuendo a delineare una realtà più vivida e struggentemente più vicina.

 

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L’opera di Orikuchi rappresenta quindi un capolavoro unico.

Fondendo con sapiente delicatezza una profonda conoscenza dell’epoca e una grande sensibilità estetica, “Il libro dei morti” è una lettura imprescindibile per chiunque sia interessato alla storia giapponese grazie alla sua capacità di delineare in maniera viva e profonda un ritratto unico dell’epoca nel suo elaborato sforzo di rintracciare le lontane radici del Giappone, capace di coglierne le mille sfumature nel loro turbinoso, incessante divenire e di fornire profonde suggestioni filosofiche ed estetiche amplificate nel caleidoscopico gioco di specchi delle citazioni letterarie e dei riferimenti colti. L’opera è una vera e propria miniera di preziose informazioni sulle origini del Giappone ma non intende rivolgersi, però, al solo pubblico nipponico.

 

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Già nel titolo è infatti evidente il richiamo al “Libro dei morti” dell’antico Egitto, un insieme di testi contenente numerose formule magiche e rituali a uso funerario; il riferimento a una civiltà a sua volta antica, ma lontana nel tempo e nello spazio sia dall’autore che dall’epoca trattata nel romanzo, e in particolare l’enfasi sulla sua dimensione religiosa e rituale suggerisce la volontà dell’autore di situare il proprio lavoro in un’ottica più ampia, abbracciando contesti umani ben al di là dei confini dell’arcipelago.

 

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Nel suo tentativo di rintracciare le radici e risalire alle origini, lo scrittore sembra sfiorare e suggerire una dimensione del mito archetipica e universale; “Il libro dei morti” di Orikuchi Shinobu mette quindi magistralmente in scena il Giappone dell’VIII secolo ma, lungi dall’essere confinato alla sua ambientazione, sembra voler raccontare una storia e comunicare il suo messaggio all’intera umanità.

 

 

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Il libro: → Il libro dei morti di Orikuchi Shinobu

 

 


 

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