Il particolare superfluo. «Il libro che nessuno pensava esistesse…»

 

 

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Più che un libro da recensire, questo di Mauro Chiabrando – Il particolare superfluo. Atlante delle minuzie editoriali – è un libro che è obbligatorio segnalare agli studiosi, caldeggiandone la consultazione o meglio ancora l’acquisto. Il volume è, infatti, imprescindibile per ogni storico dell’editoria, bibliografo, bibliofilo appassionato del nostro Novecento.

 

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Articolo tratto da: Bibliothecae.it – (qui il pdf)

 di Roberta Cesana

 

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È, per antonomasia, il sancta sanctorum del peritesto editoriale, e l’opportunità di segnalarlo risiede, non solo, ma anche, nel fatto che non esiste niente altro di simile, che finora nessuno si era “imbarcato”, diciamo così,

in un’impresa collezionistica e, infine, sistematizzatrice, come quella intrapresa e brillantemente condotta a compimento con questa pubblicazione da Mauro Chiabrando,

noto ai più ma – per chi non lo conoscesse – sinteticamente individuabile come giornalista culturale (già animatore e condirettore della rivista Charta, nonché collaboratore del Sole 24 Ore e vice direttore di ALAI, la rivista dell’Associazione Librai Antiquari Italiani) e, naturalmente, collezionista, o forse lui preferirebbe definirsi “esploratore curioso”.

 

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Diciamo subito che questo libro è infatti il frutto di oltre vent’anni di ricerche dell’autore tra i banchi dell’antiquariato, ma diciamo subito anche che, se nel corso di questi vent’anni Chiabrando non fosse riuscito a raggiungere “la soglia della massa critica” (come lui stesso la definisce), il risultato non sarebbe stato ugualmente apprezzabile:

“non basta accumulare”,

occorre saper “campionare e ordinare le migliaia di informazioni contenute negli oggetti cartacei che il nastro trasportatore del caso fa passare sotto i nostri occhi”, scrive Chiabrando, di se stesso, nella cartolina intitolata Nota dell’autore che è inserita nel volume.

La fascetta, invece, recita: «Il libro che nessuno pensava esistesse…».

 

Il-particolare-superfluo

 

Ed è tutto vero, sia che Chiabrando è stato capace di scegliere, sia che un libro come questo finora non esisteva.

Il particolare superfluo è dedicato a Roberto Palazzi, scopritore di [quelle] mirabili “futilità” che sono il cuore di questo libro (al culto delle quali Chiabrando è stato iniziato proprio dal grande libraio, oggi tristemente compianto),

tutte quelle “biblioephemera” che hanno vita transitoria e che, di conseguenza, non sono destinate a essere conservate.

L’elenco di queste “microbiche futilità” è nell’Indice stesso del volume:

-copertine di cataloghi editoriali,

-fascette,

-piccola pubblicità editoriale,

-segnalibri,

cedole,

-tagliandi,

-schede,

-ricevute,

-schede bibliografiche,

-buoni,

-tessere,

-concorsi,

-messaggi dell’editore,

-salvo errori od omissioni,

-omaggi dell’editore e dell’autore,

-etichette, prezzi,

-biblioteche popolari e circolanti,

-segnali militari, ex libris di biblioteche,

-doni e premi,

-erinnofili e bolli,

-tagliandi di controllo.

 

 

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Tutti elementi che, in un modo o nell’altro, se seguiamo la lezione di Genette, hanno il compito precipuo di orientare la lettura e proprio per questo interessano, come dicevo più sopra, non solo il collezionista ma anche lo storico dell’editoria.

Dalle pagine di presentazione e commento – che Chiabrando antepone a ciascuna delle sezioni in cui scorrono le bellissime immagini delle nostre ephemera cartacee – possiamo trarre qualche suggestione.

 

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Scegliamo a nostro gusto, ma avvertiamo che le strade da seguire sono davvero molteplici, così come generosa è la scelta delle immagini, l’estetica gradevole, la consultazione agevole.

 

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Sfogliando le pagine in cui sono riprodotte le copertine di cataloghi editoriali, l’occhio non può non cadere su quelle più belle esteticamente, sono firmate magari da Antonio Rubino, o da Attilio Mussino, per citarne solo due (rispettivamente, per Hoepli e per Vallardi), ma poi ci si imbatte in qualcosa di prezioso perché rarissimo:

sono le copertine degli introvabili cataloghi della Anonima Documento Editrice di Federico Valli, del consorzio Jandi e Sapi, delle edizioni OTET, delle Edizioni della Bussola; e ancora, lasciando Roma e spostandoci a Milano, troviamo quelli della casa editrice Bianchi Giovini di Ugo Dettore, della Alessandro Minuziano, del rinato Istituto Editoriale Italiano, dell’editore- tipografo Giuseppe Muggiani, fino alla più famosa copertina del catalogo di Rosa e Ballo firmata da Albe Steiner.

 

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Tutti cataloghi piccoli ed effimeri, come piccole ed effimere erano le iniziative editoriali che, tra il 1943 e il 1948, sorgevano a Roma e a Milano, provando a inserirsi nello spazio lasciato libero dai grandi editori negli anni della guerra.

Possiamo dire, senza timore di esagerare, che questi cataloghi sono testimonianze preziosissime per ricostruire l’attività e riavvolgere i fili di tante storie che rischiano, altrimenti, di andare disperse.

Tra gli apparati del libro le fascette editoriali sono certamente il più effimero, e tanto più lo erano all’inizio del Novecento quando sigillavano il volume e quindi spesso le si lacerava gettandole nel cestino della carta.

 

ANTONIO-RUBINO

 

Eppure se, come ricorda Italo Calvino in un trafiletto intitolato L’arte della fascetta («Notiziario Einaudi», I/ 1, 1952), scrivere una fascetta può essere un compito più difficile di quello di scrivere una recensione, si comprende come il compito di titolare con efficacia le fascette non sia mai stato tanto semplice e valga dunque la pena di conservare almeno le meglio riuscite.

Qualche esempio è facilmente rintracciabile nelle venti pagine di immagini che ci offre Chiabrando: si va dalle fascette futuriste (“la più pubblicitaria e iperbolica delle avanguardie non poteva ignorare le fascette”) a quelle di Leo Longanesi che, neanche a dirlo, si distinguono anche per il raffinato gusto grafico; indimenticabile la fascetta di Americana (Bompiani, 1942) concordata con il Minculpop, il cui testo era stato, naturalmente, estrapolato dalla prefazione di Emilio Cecchi; mentre una fascetta del 1945 («Ora Remarque si può leggere») suggellava la complicata vicenda censoria della prima edizione italiana di Niente di nuovo sul fronte occidentale.

 

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La casistica selezionata da Chiabrando è ampia ed è esemplificativa dell’evoluzione della fascetta almeno fino agli anni Cinquanta quando anche la televisione, con le sue produzioni di grande seguito popolare, fa la sua comparsa in copertina.

Di più effimero delle fascette c’è forse solo la piccola pubblicità editoriale volante, che giunge a noi spesso ancora custodita tra le pagine del libro che in origine la ospitava.

A questa tipologia extra-peritestuale, sfuggita anche all’analisi di Genette, Chiabrando riserva trenta pagine di commento e trentacinque pagine ricche di immagini di esemplari che vanno dal più vecchio manifesto nel quale l’autore si è imbattuto (Giuseppe Marelli, 1765) ai bellissimi materiali realizzati nel secondo dopoguerra dai nostri più grandi grafici editoriali, come Albe Steiner, Max Huber, Bruno Munari, Giuseppe Trevisani e via dicendo.

 

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Molto interessante il capitolo dedicato alle schede bibliografiche, nel quale Chiabrando fa subito riferimento all’Italia che scrive che nel 1925 “annunciava” la nascita della scheda e nel 1926, su sollecitazione di Mondadori, ne pubblicava anche uno specimen.

Dopodiché, tranne Mondadori che la lanciò e la utilizzò fino alla fine degli anni Quaranta, la scheda bibliografica sembra essere vissuta «come un fiore all’occhiello» più che altro dall’editoria di cultura, se è vero, come ci dice Chiabrando, che la adottarono Vallecchi, Sansoni, Einaudi, La Nuova Italia, e che invece non sedusse mai editori di successo come Bompiani, Treves (poi Garzanti), Longanesi.

 

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Tra gli esemplari più raffinati, si segnala per eleganza e completezza la nota bibliografica delle Edizioni di Comunità stampata su quattro facciate, con profili biografici degli autori, i titoli originali, il nome del traduttore, note informative sulle opere e l’indicazione delle caratteristiche fisiche del volume.

Messaggi da non confondere con quelli delle schede bibliografiche o della piccola pubblicità editoriale sono quelli dell’editore,

già diffusi nell’Ottocento sotto forma di lettera prestampata, con formule che vanno dal “massimo ossequio” con cui Ulrico Hoepli si riaffermava “devotissimo” ai suoi lettori, fino alla campagna di propaganda autarchica che la Libreria del Littorio di Milano inseriva nelle proprie edizioni con la richiesta di segnalare «nominativi ai quali […] può e deve interessare il libro fascista».

 

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E questo è solo un esempio perché, soprattutto dopo la pubblicazione delle leggi razziali, sono molte le tracce di quell’onta vergognosa del regime che emergono «dai recessi di qualche cantina», come scrive Chiabrando, che ne ha raccolte diverse.

Nella sua ricerca, il nostro autore non ha trascurato nemmeno gli errata corrige (che si presentano perlopiù nella forma di foglietti volanti in velina), i biglietti editoriali di accompagnamento dei volumi in omaggio, le variopinte etichette librarie delle quali ci fornisce numerosi esempi che cronologicamente vanno dalla fine del Settecento al secondo Novecento, e finanche i prezzi, interpretati come “fattore non trascurabile” della “mercatura del libro”, sia sul piano psicologico della vendita, sia su quello della dignità tipografica alla quale, secondo Chiabrando,

gli editori hanno sempre aspirato, in modo da non far mai apparire il prezzo «come qualcosa di estraneo o posticcio rispetto alla veste del volume».

 

 

 

 

Potrei continuare all’infinito, ma concludo con un accenno ai capitoli che Chiabrando dedica, rispettivamente, alle biblioteche popolari e circolanti e agli ex libris di biblioteche pubbliche e private.

Nel primo caso raccoglie diverse testimonianze che provengono dalla Meiners (ricordo che i suoi centomila volumi sono al Circolo Filologico Milanese), dalla Donath (Genova), dalla Piale (Roma), dal Vieusseux, e da tante altre e diverse biblioteche (soprattutto milanesi, ma non solo) associate alla Federazione Italiana.

 

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Nel secondo caso risalta invece l’interesse, anche artistico, che le biblioteche, pubbliche e private, hanno storicamente dimostrato nei confronti dell’ex-libristica, e che in queste pagine possiamo ammirare per le cornici tipografiche presenti sin dal Sette/Ottocento ma ancor più per le tecniche di stampa dell’illustrazione:

dalla calcografia, alla litografia, alla xilografia. Un’ultima notazione, prima di chiudere: il particolare superfluo del titolo è quello di Tolstoj, la tecnica che il grande scrittore russo usava per raggiungere l’effetto di rappresentazione della realtà.

 

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Per illustrarlo, nella Premessa, Chiabrando cita (da Lukàcs) il passo in cui Vronskijrealizzò di non essere più innamorato di Anna Karenina, «avendo notato d’un tratto e con ripugnanza in lei l’abitudine di alzare il mignolo nell’atto di sorbire il tè dalla tazza».

Allo stesso modo, nella visione di Chiabrando con la quale noi concordiamo, queste minuzie editoriali sono oggi utili e in qualche caso indispensabili alla comprensione di un galateo editoriale da tempo estinto.

 

Roberta Cesana

 

 

Il particolare superfluo. Atlante delle minuzie editoriali

Il libro: → Il particolare superfluo. Atlante delle minuzie editoriali

 


 

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Il particolare superfluo

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