F antalettura. Marinetti e il «Gruppo dei Dieci» firmarono il primo romanzo collettivo italiano con la storia del sovrano russo scappato alla rivoluzione
Articolo tratto da: il Sole24Ore marzo 2021 (qui)
di Simonetta Bartolini
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Pirandello parlò di «inqualificabile gaglioffata», Malaparte si scandalizzò per la cifra pagata, Settimelli lanciò un’accusa di tradimento.
Chi poteva catalizzare tanto sdegno e tanta attenzione se non Filippo Tommaso Marinetti e la sua creatura, il “gruppo letterario dei Dieci”, che firmava il primo romanzo collettivo italiano Lo Zar non è morto?
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Questa storia comincia pubblicamente il 24 maggio 1928 con un “banchetto” e un telegramma.
Il primo avveniva all’albergo degli Ambasciatori a Roma, dove il fondatore del futurismo aveva chiamato a raccolta «letterati, grandi finanzieri e rappresentanti delle Nazioni estere» per presentare il gruppo dei Dieci, formato, oltre a lui, da Antonio Beltramelli, Massimo Bontempelli Lucio D’Ambra, Alessandro de Stefani, Fausto Maria Martini, Guido Milanesi, Alessandro Varaldo, Cesare Giulio Viola e Luciano Zuccoli.
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Il telegramma veniva spedito a Mussolini con lo stesso scopo dai dieci scrittori, autodefinitisi
“gruppo d’azione per servire il romanzo italiano in Italia e all’estero”.
Non si trattava solo di un’enunciazione di progetti da realizzare, perché a quella data tutto era già stato fatto o era in procinto di compiersi in maniera definitiva.
I Dieci infatti avevano appena pubblicato la loro prima opera collaborativa, il Novissimo segretario galante, e dal 18 marzo avevano cominciato a pubblicare a puntate sul «Lavoro d’Italia», il quotidiano della Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali diretto da Edmondo Rossoni, il romanzo collettivo Lo Zar non è morto, ricevendo come compenso la non trascurabile cifra di centomila lire (si pensi che alla fine degli anni Trenta l’Italia cantava il famoso motivetto «Se potessi avere mille lire al mese»).
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La miscela era esplosiva, e difatti esplose.
Il primo ad accendere la miccia delle polemiche fu Emilio Settimelli, futurista della prima ora, e al tempo direttore de «L’impero», che inorridì di fronte all’iniziativa del “maestro”; il tradimento era inequivocabile, scrisse in una lettera aperta pubblicata sul suo giornale e indirizzata al Presidente dei “Dieci” il 6 giugno:
non solo Marinetti fondava un’accademia, ma oltretutto si proponeva di rilanciare il romanzo, genere aborrito dai futuristi, e addirittura ne stava pubblicando uno
insieme a un gruppo di scrittori alcuni dei quali rappresentavano il modello del “poeta salottiero”, l’opposto dei “giovani artiglieri della baldoria” di marinettiana invenzione.
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Qualche giorno dopo Malaparte rincarò la dose con un articolo su «La Fiera letteraria», intitolato Una specie di accademia, nel quale soffiò sul fuoco delle polemiche aggiungendovi la reprimenda legata al fatto che i soldi (ma sbagliava la cifra per eccesso scrivendo di centocinquantamila lire), pagati ai Dieci come compenso per il romanzo, provenivano dalle casse del sindacato i cui tesserati erano in gran parte operai.
Gramsci dal carcere prese nota dell’articolo di Malaparte riportandone il contenuto in uno dei quaderni.
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Circa un mese dopo, l’8 luglio, Pirandello si univa al coro degli indignati, e in una lettera privata a Marta Abba scriveva: «Centocinquantamila lire hanno avuto per il romanzo, che è una inqualificabile gaglioffata».
Marinetti aveva avuto quel che voleva, clamore intorno alla sua iniziativa;
alle polemiche era abituato e ben sapeva quanto esse potevano essere utili a diffondere interesse intorno al romanzo per il quale aveva in animo una successiva edizione in volume che fu realizzata l’anno successivo, nel 1929, e lanciata con un concorso nel quale si invitavano i lettori che avrebbero acquistato il libro a riconoscere quali,
fra i cinquantanove capitoli del romanzo, fossero i dieci scritti autonomamente da ciascuno degli autori, specificando che gli altri erano invece il frutto della collaborazione fra i vari scrittori.
Dunque si trattava di un vero caso, il primo in assoluto in Italia, di scrittura a venti mani applicata a un romanzo di avventure, e questa, anche se non bastò a placare l’ira di Settimelli, era in effetti una “trovata” futurista, che aveva un precedente in un romanzo a quattro mani scritto da Marinetti e Corra, L’Isola dei baci. Romanzo erotico-sociale, pubblicato nel 1918 dopo una lunghissima gestazione che ebbe più il merito di cementare l’amicizia fra i due che di produrre un’opera narrativamente significativa.
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Lo Zar non è morto si presentava sotto la forma leggera del classico romanzo di avventure con tutti gli ingredienti del genere.
E come tale anche il lettore contemporaneo può gustarlo con piacere immergendosi in una storia di fantapolitica, ambientata nel 1932, nella quale il protagonista,
lo Zar Nicola II creduto morto a Ekaterinburg nel 1918 insieme a tutta la famiglia imperiale, viene ritrovato in Asia nel 1931 nei panni del cosiddetto “Uomo della Manciuria”, un vecchio privo della favella del quale tenteranno di impadronirsi Italia, Russia e Cina;
la prima per sconfiggere il regime bolscevico rimettendo sul trono il sovrano redivivo, la seconda per sbarazzarsene definitivamente, la terza per usarlo come merce di scambio con le altre due per ottenere privilegi economici.
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Ma si trattava veramente dello Zar o solo di un millantatore?
Lasciamo al lettore il gusto di scoprirlo, avvertendolo che solo nell’ultima riga dell’ultima pagina sarà sciolto l’ultimo mistero di questo romanzo nel quale la presenza di un fitto ordito di rimandi storico-politici e culturali lo sottrae, almeno in parte, alla dimensione fantastica per farne un testo che partecipa dei meccanismi del romanzo storico, ancorandolo a quella intenzione di offrire al duce un esempio di epopea fascista.
Lo Zar non è morto è senz’altro un romanzo popolare con intenti di propaganda, ma è anche, grazie alla presenza di veri artisti della narrazione, uno straordinario meccanismo narrativo che lega personaggi e avvenimenti secondo una struttura perfettamente organizzata che, per esempio, nel contrapporre eroe e antagonista (il fascista e la spia russa) si affida a rigorosi chiasmi narrativi.
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Purtroppo nel passaggio dalla versione pubblicata sul «Lavoro d’Italia», che oggi appare finalmente completa in questa nuova edizione (Luni Editrice),
a quella in volume, una parte di questa perfetta struttura andò perduta: il romanzo venne tagliato delle parti più letterarie (descrizione di ambienti personaggi) e la successione e la composizione dei capitoli rivoluzionata (passarono da cinquantatré a cinquantanove nonostante i tagli intervenuti) probabilmente per enucleare in capitoli autonomi le parti scritte da ciascun autore e poter così rendere possibile il concorso fra lettori.
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Marinetti aveva compiuto un’altra delle sue mirabolanti operazioni inventando il romanzo collettivo italiano e agli studiosi resta il sospetto che – per quanto sia rimasto un unicum, e per di più dimenticato a lungo – esso non fosse sfuggito a Maksim Gor’kij, che in quegli anni dimorava in Italia, e che nei primi anni Trenta fondava in Urss le brigate degli scrittori scrivendo:
«Se i lavoratori riescono a fare colate di cemento riuniti in brigate, perché una brigata di scrittori non potrebbe scrivere un libro collettivo?».
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E libro collettivo fu: trentasei scrittori coordinati da Gor’kij scrissero Belomor, un reportage della loro visita all’omonimo gulag.
Simonetta Bartolini
Il libro: → Il libro: Lo Zar non è morto
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