N el 1927 lo scrittore giapponese Akutagawa Ryūnosuke si toglieva la vita, avvelenandosi a trentacinque anni non ancora compiuti. Nel 1954, riferendosi a quell’episodio, Mishima Yukio annotava alcune considerazioni sul suicidio.
Pur senza condannare l’arte di Akutagawa, che anzi riteneva autore di racconti che potevano considerarsi «splendidi classici della letteratura giapponese», Mishima scriveva che la morte volontaria si addiceva unicamente a un guerriero, non certo a un letterato.
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Suicidio e vocazione artistica e letteraria gli apparivano, infatti, incompatibili: mentre nell’uccidersi un samurai seguiva un codice di comportamento che gli era proprio, un artista che si suicidava era come se si abbandonasse ad un atto di viltà, che era, però, insieme il frutto di una «coraggiosa determinazione».
Al contempo, quasi contraddicendo queste sue affermazioni, Mishima confessava ai suoi lettori di aver pensato egli stesso al suicidio, senza essere tuttavia riuscito a portare a compimento il suo proposito.
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È singolare leggere queste righe di Mishima, pensando a quello che sarebbe accaduto il 25 novembre 1970.
In quel giorno, nella caserma di Ichigaya, nel pieno centro di Tōkyō, ebbe luogo uno dei gesti più “scandalosi” della storia del Novecento. Dopo aver arringato la folla dal balcone dell’ufficio del capo di stato maggiore dell’esercito di autodifesa con un discorso in cui puntava il dito contro la subordinazione del suo Paese agli Stati Uniti e accusava i suoi connazionali di aver rinnegato il proprio passato,
Mishima compì il suicido rituale secondo l’antico cerimoniale del seppuku,
che prevedeva prima l’autosventramento, quindi la decapitazione da parte di un fedele compagno d’armi. I dettagli di quella vicenda sono particolarmente macabri (il compagno scelto per la decapitazione, il fedele Masakatsu Morita, sbagliò più volte il colpo fatale e un altro dovette intervenire al suo posto) e
le intenzioni di Mishima non sono state ancora chiarite fino in fondo,
anche se molto probabilmente si trattò di una manifestazione di protesta pubblica contro il processo di modernizzazione e occidentalizzazione del Giappone e di denuncia del declino della tradizione di epoca imperiale. Mishima aveva allora quarantacinque anni.
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Da quel momento, la sua figura non ha smesso di alimentare l’immaginario ideologico delle destre occidentali, soprattutto delle sue frazioni più radicali ed estreme, che hanno scorto in lui una combinazione di ultranazionalismo e militarismo, fanatismo delle idee e culto del corpo, esaltazione della virilità e fedeltà alla disciplina guerresca, misoginia e conservatorismo più retrivo.
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Contro queste letture banalizzanti, superficiali e talvolta distorte di Mishima, il libro di Danilo Breschi (Yukio Mishima. Enigma in cinque atti, Luni Editrice, Milano 2020) conduce una salutare opera di demitizzazione, tesa a portare alla luce soprattutto la dimensione letteraria e filosofica dei suoi scritti, senza per questo nascondere le sue numerose zone d’ombre e le sue ambiguità.
Il libro: → Yukio Mishima. Enigma in Cinque Atti
Nei cinque capitoli di cui si compone – intitolati “atti”, come se si trattasse di un dramma
– il volume di Breschi ripercorre l’itinerario intellettuale dello scrittore, evidenziando come uno dei tratti distintivi della sua opera sia stata proprio la capacità di riuscire a descrivere il male e le passioni più bieche e morbose dell’essere umano (oggetto di un’ingente rimozione nella letteratura contemporanea occidentale) ricorrendo a uno stile impeccabile, sorvegliato e non di rado delicato e ironico.
La ferocia, l’aggressività e l’esuberanza che contraddistinguono le esperienze di vita raccontate da Mishima – secondo quelle atmosfere ben colte da Paul Schrader nel suo film del 1985, Mishima.
Una vita in quattro capitoli – sono sempre temperate da un rigore formale e da un uso critico della ragione, che non tende ad addomesticarle né a renderle più accettabili, ma al contrario prova a esasperarle, disorientando costantemente il lettore.
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Il suo stesso gesto finale può essere forse considerato il simbolo di questa tensione che attraversa la maggior parte dei suoi scritti:
si tratta di un atto estremamente violento, sanguinario, eppure scandito in tutte le sue fasi da un preciso rituale.
È come se in Mishima dionisiaco e apollineo – per riprendere i concetti di Nietzsche, autore da lui prediletto e attraverso la mediazione del quale si avvicinò alla studio della grecità – si mescolino continuamente fino quasi a fondersi, tanto che l’uno non si dà senza l’altro.
Non vi è slancio vitale senza decadenza, non vi è forza senza debolezza, non vi può essere razionalità senza sentimento e sensibilità.
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Ed è quest’ultimo uno degli aspetti destinati ad assumere grande rilevanza nella riflessione di Mishima e a divenire per lui quasi un’ossessione:
la questione che caratterizza la sua opera, almeno a partire dagli anni Sessanta, concerne la possibilità di trovare un punto di intesa tra il pensiero e il corpo, recuperando quella che ritiene essere una delle lezioni principali della Grecia antica, ovvero la conciliazione tra la cura del corpo e l’esercizio del pensiero come critica della polis.
Dall’armonizzazione tra questi due aspetti, Mishima auspica che possa giungere una speranza di riscatto, integralmente laico, per un’umanità a suo giudizio corrotta dall’americanismo, dal consumismo e dal dominio dell’economia e della tecnica.
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Quello che emerge dalle pagine di Breschi è dunque un Mishima formidabile conoscitore della letteratura e della cultura europea, capace di fondere in una nuova sintesi elementi di Dostoevskij, D’Annunzio e Proust e di rivelarsi un fine indagatore della psiche umana, delle sue pieghe e delle sue frontiere.
Mishima non si limita ad un estetismo di maniera o all’esaltazione delle perversioni umane, come troppo spesso si sottolinea; è al contrario impegnato in una ricerca, senza dubbio disperata ma al tempo stesso lucida, di un principio (la bellezza?) che possa fornire un saldo ancoraggio all’arte e di riflesso all’esistenza umana.
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Se si volessero usare categorie del pensiero occidentale, si potrebbe affermare che il Mishima scrittore sia stato un osservatore e un critico non tanto del rapporto tra tradizione e modernità quanto della transizione dalla modernità alla postmodernità.
Il Mishima letterato, suggerisce Breschi, non è tanto (o non solo) un antimoderno, quanto un anti-postmoderno, contrario all’omologazione e al conformismo artistico e culturale, prima ancora che sociale, che intravede nel suo tempo.
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Nella sua polemica contro Sainte-Beuve, Proust ci ha insegnato a scindere opera e vita, a comprendere che l’io che scrive un libro è un io diverso da quello che si esprime nel nostro stile di vita, nelle nostre umane debolezze e nelle nostre contraddizioni (e spesso quest’ultimo “io” è molto inferiore e meno limpido rispetto all’io in grado di produrre opere d’arte).
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Sappiamo bene quanto sia difficile applicare questo insegnamento in generale e quanto possa esserlo, in particolare, nel caso di uno scrittore, come Mishima, che esplicitamente non ha distinto tra vita e opera nel tentativo di costruire l’una alla luce dell’altra:
si può dimenticare, ad esempio, che egli fondò un esercito privato e che avrebbe voluto trasformare il popolo giapponese in un popolo di guerrieri?
Eppure, uno sforzo in questa direzione deve essere compiuto, come ci mostra Danilo Breschi nel suo bel libro.
GIOVANNI CERRO
Vai al libro: → Yukio Mishima. Enigma in Cinque Atti
La casa editrice Luni nasce nel 1992 con lo scopo di diffondere le idee che animano la riflessione italiana rendendo disponibili e accessibili al pubblico italiano molti testi del mondo Orientale spesso introvabili.
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