Pessoa e l’ingenuo stupore della rivelazione domestica

pessoa

 

 

TORNANO LE «POESIE ESOTERICHE»

Pessoa e l’ingenuo stupore della rivelazione domestica I versi migliori del portoghese sono il diario di un’anima smarrita di fronte al mistero

 

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Articolo tratto da: Il Giornale maggio 2022  (qui il link)

 di Davide Brullo

 

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Fernando Pessoa non evocava gli spettri, li creava: secondo il gergo gnostico, erano una sua «emanazione».

Primo mobile, implacabile e generoso, anonimo, immortale nella propria malinconica infima infinitezza, Pessoa è il dio abulico da cui provengono molteplici eteronimi; è l’uno che s’immilla, il singolo che dilaga in legione.

 

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Nella Cabala sarebbe «Keter», il divino niente, incolore, trascendente; il Retrato de Fernando Pessoa realizzato da José de Almada-Negreiros ne distingue l’eleganza patetica, plastica, le mani da alchimista, lo sguardo incline alla severità e dunque, alla più fosca compassione -, di incerta violenza: ci vuole estro burocratico per discernere il caos.

 

«Pessoa è una plurima, mostruosa cattiva coscienza: la mia, la nostra, la vostra, quella di tutti gli uomini di buona volontà, di qualsiasi buona volontà si tratti. Pessoa è un grido di dolore e un belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del suo teorema», ha scritto Antonio Tabucchi, con estro ascendente, in Una sola moltitudine (Adelphi, 1979), il libro che ha fatto di Pessoa il santo dell’editoria odierna, un fenomeno pop, il guru dei nostri esoterismi quotidiani, da caffellatte.

 

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Tra le altre cose, arguiva Tabucchi, Pessoa si riconosce «nel rifuggire il segno che si afferma, nel ripudiare la prevalenza».

Insomma, Pessoa non lo incateni in un vezzo, in un tono, in un aggettivo: gli eteronimi, diversamente crudeli, esistono per proteggere il creatore da ogni incursione esegetica, da ogni fede cretina, dall’assolo degli accademici.

 

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Tra la falange degli eteronimi, Alexander Search, nato il 13 giugno 1888 a Lisbona, come Pessoa, probabilmente sudafricano, autore di testi dai titoli claustrofobici The Mental Desorder of Jesus, Delirium, Agony e di «un patto con Satana», pare prefigurare il fatidico incontro con la «Bestia», il «666», esoterista Aleister Crowley.

Dell’incontro, accaduto il 2 settembre del 1930, sappiamo pressoché tutto merito di un libro, La bocca dell’inferno, curato da Marco Pasi per Federico Tozzi editore nel 2018. Pessoa aveva scritto all’editore londinese di Crowley, segnalando un errore nel suo oroscopo; Crowley caccia- to da Cefalù sette anni prima -, meravigliato dall’intelligenza astronomica di Pessoa, volle conoscere il discepolo portoghese.

 

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A Lisbona sbarcò con una ragazza di proverbiale bellezza, Hanni Larissa Jaeger, che dopo un po’ preferì mollarlo.

Qui il rapporto iniziatico assume i toni del capriccio, della scena carnevalesca: Crowley, infatti, inscena un suicidio, presso le scogliere della «Boca do Inferno» a Cascais, forse per riconquistare la fanciulla, di certo per riattivare la propria fama, lievemente in disarmo.

 

Pessoa, davanti alla polizia locale, gli fa da spalla, il caso monta, la stampa s’infiamma, Crowley ottiene l’effetto sperato.

Nel frattempo, è partito per Berlino, dove si accompagna con un’altra donna, Bertha Busch. Pettegolezzi mistici. Ad ogni modo, gli interessi di Pessoa per l’occultismo risalivano a diversi anni prima: nel 1915 aveva tradotto alcuni testi di Helena Blavatsky, la fondatrice della Società Teosofica, rimanendone impressionato. Cinque anni dopo, a Ophélia Queiroz, scrive «Il mio destino… è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano».

 

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Nella notissima nota autobiografica redatta il 30 marzo del 1935, otto mesi prima della morte, Pessoa afferma di essere stato «Iniziato, per comunicazione diretta da Maestro a Discepolo» (da Crowley?), di essere «fautore di un nazionalismo mistico», dichiarandosi «fedele alla Tradizione Segreta del Cristianesimo». L’anno prima aveva stampato, in proprio, Mensagem, l’unico libro in versi, in portoghese, edito in vita. In forma lirica, Pessoa riassume il suo credo nel «sebastianismo» e nel Quinto Imperio, apice del destino portoghese.

 

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L’indole messianica dona alle poesie un’urgenza dorata:

«Non so l’ora, ma so che l’ora esiste./ Benché Dio la ritardi e l’anima la chiami mistero».

Con quel libro, Pessoa partecipò al premio bandito dal Secretariado de Propaganda Nacional: gli fu preferita l’opera meno impegnativa di un sacerdote, Vasco Reis, il quale, a voler sfogare nell’onirico, pare una creatura ideata lì per lì da don Fernando, magari è il cugino di Ricardo Reis monarchico, nato a Oporto, fanatico di Orazio, si era autoesiliato in Brasile. Tra le Poesie esoteriche di Pessoa a cura di Francesco Zambon; già Luanda, 2000, ora edite da INVENZIONI Fernando Pessoa (1888-1935) visto da Dariush Radpour Luni, pagg. 160, euro 20, da leggere in concomitanza con le Pagine esoteriche di Pessoa stampate da Adelphi nel 1997 e con la raccolta Politica e profezia, a cura di Brunello De Cusatis, Bietti, 2018 le più belle non sono quelle voluttuosamente gnostiche (Sulla tomba di Christian RonsenKreutz, per dire, con distici sapienziali come questo:

«Dio è l’Uomo di un altro Dio maggiore:/ Supremo Adamo, anch’Egli ebbe Caduta»), ma quelle in cui il poeta scorge la tenebra tra le spirali del roseto sotto casa, solleva, con cautela, la pellicola che ammutolisce il mondo, svelandone l’arcano: «La morte è la curva della strada,/ morire è solo non essere visto…// La terra è fatta di cielo./ La menzogna non ha nido».

 

 

La rivelazione è domestica, qui, esatta; l’enigma, per scioglierlo, richiede arte, anzi, tenerezza. Pare, cioè, che per Pessoa l’esoterismo non abbia le tinte della moda, dell’esclusività snob da club inglese come accade per l’allucinato William Butler Yeats -; la massoneria è missione, la gnosi uno scoscendimento nel privato: manca per fortuna la liturgia kitsch, la chiacchiera oltremondana, il rito da triti altoborghesi.

 

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In Pessoa vince l’ingenuità, il regno dello stupore, un tabernacolo di miele in gola.

In fondo, il Lino do Desassossego è il regesto di un’anima smarrita, una specie di vangelo gnostico, ma in negativo: «Come Diogene di Alessandro, ho chiesto alla vita soltanto che non mi togliesse il sole.

Ho avuto desideri, ma mi è stata negata la ragione di averli… Dio mi concede che non manchi l’enigma di vivere».

D’altronde, se Bernardo Soares era un modesto «aiutante contabile» che conteneva universi notturni, Ricardo Reis sfoggiava una specie di aureo epicureismo, Alvaro de Campos nasce dandy, futurista, antiborghese; Antonio Mora era «un paranoico» ossessionato dal Prometeo incatenato di Eschilo; non è estraneo il neopaganesimo tra gli interessi di Alberto Caeiro, poeta «alieno a legami affettivi e sentimentali» dagli occhi ovviamente azzurri.

Come relegare Pessoa, ideatore di nebbie, estremista dell’elusione, in un pensiero, un credo, una loggia, un congedo? Per gli eteronimi di Pessoa non esiste l’inferno, non ha senso il giudizio ultimo: sono assolti per eccesso di assoluto.

 

 

Così illumina la tenebra: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto»

 

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Fernando-Pessoa-Poesie-esoteriche

 

Il libro: → Poesie esoteriche

 

 

 


 

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