La morte volontaria in Giappone
La morte volontaria in Giappone. «Io ho scoperto che la Via del samurai è morire. Davanti all’alternativa della vita e della morte, è preferibile scegliere la morte».
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Queste parole tremende, pronunciate dal samurai Yamamoto Tsunetomo, fattosi monaco dopo la morte del suo signore, e trascritte da un suo discepolo in quel libro oggi universalmente noto come Hagakure, (pubblicato anch’esso da Luni Editrice) racchiudono l’essenza dell’etica del popolo giapponese.
Se è vero che il modo di confrontarsi con la morte, in quanto implica il rapporto a ciò che trascende la vita umana, si situa al cuore del sentimento religioso – e costituisce perciò un elemento fondamentale per comprendere un popolo, una cultura, una civiltà –
nel caso dei Giapponesi la morte, quel silenzio definitivo che rappresenta la fine e l’impossibilità stessa di ogni pensare e di ogni agire, può divenire, in determinate circostanze, l’obiettivo di un atto volontario capace del supremo conferimento di senso alla vita umana.
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Il saggio di Pinguet ci mostra, con una dettagliata analisi storica, come il suicidio,
che dal Cristianesimo è sempre stato considerato tra i peccati più imperdonabili, costituisca, per la civiltà giapponese, l’oggetto di una scelta etica che nel corso dei secoli ha subìto una lunga elaborazione e codificazione, sociale non meno che «tecnica».
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Mentre l’individuo occidentale, di fronte alla disperazione, al disonore, al fallimento della propria esistenza, è lasciato in balìa di se stesso, e ha come alternative o la fede religiosa, o la medicalizzazione, la droga, o il suicidio come gesto solitario con cui ci si sprofonda nel Nulla, la civiltà giapponese offre, invece, una via d’uscita non individualistica, ancora sociale:
una «Forma», ovvero un gesto supremo di autosacrificio con cui il singolo può «chiudere» la propria vita ricongiungendosi alla comunità da cui la sua colpa lo aveva diviso.
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Questa «Forma» può assumere l’aspetto di un vero e proprio kata
– come il seppuku dei samurai o la picchiata e lo schianto dell’aereo del kamikaze –,
oppure essere la testimonianza, meno formalizzata, del distacco buddhista dall’esistenza, del mal d’amore, del fallimento di una carriera o semplicemente del male di vivere, ma, in ogni caso, nella civiltà giapponese, il tracciato di questo gesto nello spazio-tempo non viene cancellato dall’irrompere della marea del Nulla, bensì salvato e riassorbito dalla pietas di quella comunità umana cui questa parola muta e suprema è sempre rivolta.
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