Utopia. De optimo reipublicae statu
La visione politica di Moro, intessuta di idealità ma anche di realismo, emerge con grande ricchezza dalle pagine di Utopia, “opuscolo” come lo definisce nelle prime righe del testo lo stesso autore, nel quale egli si diverte a esporre quella che secondo lui è “la migliore forma di Repubblica”.
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Utopia è il nome coniato da Moro con il quale battezzò un’immaginaria isola (a forma di Inghilterra) dove vi è uno stato regolato «così bene e da così poche leggi, che non solo vi è onorato e ricompensato il merito ma anche l’uguaglianza è stabilita in modo che ognuno ha in abbondanza di ogni cosa».
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Moro descrive esattamente più che l’utopia il sogno che ogni persona vorrebbe si realizzasse in vita: obbligo di lavoro per tutti ma anche tempo libero, soppressione della proprietà privata e abolizione del denaro e tolleranza religiosa; sono questi alcuni dei tratti presentati per definire una organizzazione sociale e umana nella quale si fondono le basi del pensiero platonico, che egli studiava e che ha trasferito con ironia in tutte le pagine del testo.
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Anche se utopia vuol dire un luogo che non c’è, bisogna ammettere che come poche altre realtà è descritta e discussa: filosofi e politici hanno fatto a gara nel descrivere questo luogo che non esiste, e oggi ci accorgiamo che senza l’utopia si svuoterebbero molti dei valori che hanno retto il mondo.
Nell’isola di Tommaso Moro ogni cosa funziona seguendo le norme scritte nel manuale della perfezione della felicità. L’unico guaio è che possiamo visitare il luogo che non c’è tenendo a mente che l’utopia è bella e contagiosa ma, se si desidera qualcosa di più, però, non c’è. Non c’è veramente. Dopo l’utopia troveremo soltanto un sorriso.
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Tommaso Moro (Thomas More, Londra 1478 – 1535) fu scrittore, umanista e politico.
La sua opera più nota, Utopia, fu pubblicata a cura di Erasmo da Rotterdam a Lovanio, nel 1516. In quel periodo Moro stava percorrendo una brillante carriera che l’avrebbe condotto a ricoprire ruoli di primissimo piano alla corte del re Enrico VIII, fino a essere nominato Cancelliere del Regno d’Inghilterra nel 1529.
Caduto in disgrazia per essersi opposto allo stesso re che si era autoproclamato capo della Chiesa anglicana e per aver rifiutato di prestargli giuramento, fu condannato a morte e giustiziato nel 1535, testimoniando la propria fedeltà alla Chiesa cattolica, che per questo motivo lo fece santo.
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