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Articolo di Alessandro Balistrieri
tratto da: ICOO
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Nell’ottobre 1934 Rezâ-Shâh Pahlavî, che sarebbe stato il penultimo Shâh di Persia, promosse un convegno accademico internazionale, con sede a Tehrân, inteso a celebrare il millenario della nascita di Abo’l-Qâsem Ferdowsî, sommo vate delle lettere persiane e autore del massimo poema epico in lingua persiana: lo Shâhnâmeh, il “Libro dei Re”.
La conferenza riunì il fior fiore dell’iranistica mondiale, culminò nell’inaugurazione del mausoleo dedicato al poeta nel suo borgo natale di Tûs nel Khorâsân, e diede un entusiastico impulso agli studi ferdosiani in tutto il mondo: lo scopo dell’iniziativa fu felicemente raggiunto, in piena coerenza con le politiche nazionali persiane illustrate dalle massime autorità culturali interne ed estere.
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Due anni or sono, in Italia la casa editrice Luni ha ripubblicato nella sua collana “Le Tradizioni” la più recente traduzione italiana dello Shâhnâmeh, quella del grande orientalista Francesco Gabrieli (1904 – 1996). La sola altra versione italiana del grande poema, integrale e in versi, è la fatica Italo Pizzi, risalente addirittura al 1886-88. Inoltre, un capitolo del volume Manoscritti dalla Via della Seta, da me scritto insieme a Giuseppe Solmi e Daniela Villani e sempre edito da Luni nella collana Biblioteca ICOO, prende specificamente in esame alcuni aspetti del capolavoro di Ferdowsî.
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Ma donde nasce, ci si può ben chiedere, l’interesse nei confronti di un’opera tanto lontana nel tempo e nello spazio?
La risposta è semplice e paradossale: nel suo intrico di peculiarità che veicolano significati universali. Ferdowsî riveste indubbiamente una funzione cardine nella celebrazione dell’identità iraniana: prova ne sia il fatto che, al di qua di ogni suo uso politico, l’opera ha conosciuto costante fortuna lungo un intero millennio. Il poeta morì nel 1020 d.C., ossia esattamente mille anni or sono, ma purtroppo difficilmente la singolare congiuntura pandemica che ancora affligge gran parte del pianeta consentirà di celebrare adeguatamente l’evento. Il posto che la tradizione persiana assegnò all’autore del poema è rimarcato dal nome con cui è universalmente noto. Ferdowsî in persiano significa infatti “il Paradisiaco”: epiteto onorifico e antonomastico.
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Per di più, il vate dell’Iran nacque in quella regione del Khorâsân, all’estremità orientale del mondo persofono, che dopo aver svolto un ruolo centrale nella “rivoluzione abbaside” del 750 d.C., si era gradualmente conquistata una propria autonomia dal califfato arabo, e all’epoca di Ferdowsî era ancora governata da dinastie locali, come quella dei Samanidi.
Vasta zona di permeabile frontiera tra il mondo persiano, tendenzialmente sedentario, e quello turcico seminomade, il Khorâsân si destreggiava all’epoca nella pericolosa dialettica tra le raffinate corti di cultura persiana, le élite militari degli ex-schiavi di origine turcica e il sempre più diffuso sunnismo, in un quadro di notevole fervore intellettuale.
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In questa regione nacquero in breve torno di decennî, Ferdowsî stesso (934 – 1020), al-Bîrûnî (973 – 1048), e Ibn Sînâ, ossia Avicenna (980 – 1037). I pensatori khorasaniani riconoscevano senza dubbio la portata e la profondità storiche delle tradizioni locali. Ferdowsî, che con buona probabilità proveniva da una famiglia di proprietarî terrieri della nobiltà locale (i dehqân, termine con cui si indicavano assai significativamente anche i capivillaggio, i rappresentanti delle consorterie contadine e i cantastorie), aveva ricevuto un’educazione accurata, ma versando in ristrettezze decise di porre la propria penna al servizio sia della tradizione iranica che dei nuovi padroni.
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Il Khorâsân era uno dei baluardi naturali dell’Iran verso il pernicioso Turan: l’esterno, diverso e ostile. Ma era anche una terra in cui lo zoroastrismo non era stato ancora del tutto sradicato (specialmente a Tûs, capitale provinciale prima della vicina Nîshâpûr), ed era stata già in passato dominata da genti transoxiane, che venivano “dal Turan”.
Nel 962 uno dei comandanti mercenarî turchi al servizio dei Samanidi, Alptegin, si rese di fatto indipendente, fondando un suo principato a Ghazna, nell’attuale Afghanistan centro-orientale, consolidato poi dal genero e successore Sebüktegin e, in misura definitiva, dal figlio di questi Mahmûd, che passò alla storia come Mahmûd di Ghazna. Fu sotto il patrocinio di questo rude capo militare turcico affascinato dalla cultura persiana che Ferdowsî compose i materiali che aveva raccolto nel proprio sterminato poema.
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Lo Shâhnâmeh costituisce un’opera eccezionale sotto molti aspetti. Il poema è una ricchissima summa, in forma di cronologia mitica, dei più antichi materiali mitologici delle civiltà iraniche, ad attingere i quali Ferdowsî, come argomenta Michele Marelli nel suo bello e chiarissimo saggio recentemente pubblicato su Limes (“Lo Shahnameh di Ferdowsi mito fondante dell’Iran”, N. 2/2020), si rivolse non già alle tradizioni auliche, intrise di motivi e termini arabo-islamici, bensì a un robusto sostrato di tradizioni orali iraniche popolari, dirette continuatrici degli antichi canti, che integrò collazionando fonti disparate, per ricapitolarle, infine, trascendendole nella sua nuova creazione.
Il poema divenne così opera di riferimento unitaria, e al medesimo tempo preservò la venerabile tradizione mitologica iranica dalla completa eclissi in cui rischiava di cadere di fronte agli autorevoli esempî offerti dalle lettere arabe.
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Con finezza notevole egli riuscì, calibrando i convenzionali e pii elogi, a suggellare, nel solco di una via tutta nazionale, le “nozze alchemiche” tra il retaggio mitistorico iranico e la religione islamica, alla quale comunque di certo anch’egli aderiva.
Un ulteriore e notevole elemento che caratterizza l’eccezionalità dell’impresa culturale rappresentata dallo Shâhnâmeh consiste nel fatto che Ferdowsî, in piena coerenza con i precedenti obiettivi, contribuì a “salvare” la lingua persiana, ravvivandola e in parte riscattandola dalla crescente invadenza dei prestiti linguistici arabi. Il successo di questa impresa garantì la stabile attestazione di un tesoro di usi linguistici illustri formalizzato nell’alta letteratura, rifondando così la dignità del persiano come idioma concorrenziale all’arabo, lingua sacra dell’islam.
In ultima analisi il vate, con sicuro senso di opportunità politica, coronò nella sua opera l’ambizione dell’élite di origine turcica alla legittimazione culturale entro la sfera della civiltà persiana.
Retrospettivamente, poi, lo Shâhnâmeh fu un’opera di importanza decisiva a poter ben comprendere numerosi riferimenti tematici e simbolici della letteratura persiana a venire, proprio in virtù della sua funzione rifondativa dell’identità iranica. La civiltà persiana elaborò fin dalla sua antichità classica una statualità imperiale strettamente connessa agli scritti (sic!) delle dottrine mitologico-religiose mazdaiche. Queste fiere e orgogliose tradizioni non scomparvero mai del tutto dalle prassi politiche e religiose iraniche, riemergendo con forza ogniqualvolta una qualsiasi forza esterna, persino il califfato stesso, minacciasse di violare con la sua azione la percezione dell’identità persiana. Già Ya’qûb asSaffâr (in arabo “il calderaio”), ad esempio, capostipite della dinastia dei Saffaridi, fu animato da forti sentimenti antiarabi, per rafforzare i quali ricorse alla promozione della lingua e delle tradizioni persiane, addirittura preislamiche.
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Mentre un poeta gli stava recitando un elogio in arabo, Ya’qûb, che ignorava la lingua del Corano, lo interruppe dicendo: «Perché declami una cosa che non capisco?».
Quella pubblica risposta incoraggiò i poeti locali a comporre versi persiani già settant’anni prima della nascita di Ferdowsî. La materia epico-narrativa si presta meglio di qualsiasi altra all’illustrazione. Tale forma d’arte, nella storia del manoscritto persiano, si concretizzò talora in risultati particolarmente felici. Numerosissimi esemplari manoscritti dello Shâhnâmeh furono miniati e illuminati secondo le complesse convenzioni stilistiche di svariate scuole di pittura in Iran e in altri paesi persofoni come l’Uzbekistan e l’India del Nord, diffondendo in tutta l’ecumene persiana la passione per la rappresentazione figurativa di episodî cruciali in quella tradizione letteraria.
La materia dello Shâhnâmeh ricopre l’intero spazio del mito e della storia iranici, dalla creazione del primo uomo (e re!) Gayômarth fino all’invasione araba dell’Iran culminante con la morte di Yazdegerd III, il crollo dell’impero sasanide e l’inizio della vittoriosa imposizione della nuova religione, che costituì, nella “percezione tradizionale” persiana della storia, prima di tutto, una insanabile catastrofe.
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Nello scorrere dei magistrali versi doppi rimati (in arabo e persiano mathnavî) di Ferdowsî incontriamo figure di potenza primordiale come Fereydûn (riproposizione eroizzata del nume avestico Thraêtaona menzionato nell’antichissimo inno – o yasna – 9 dell’Avesta, la letteratura dell’Iran mazdaico), che libera il mondo dalla tirannia del malvagio re Zahhâk (in antico il demone-drago Azhi-Dahâka), eroi invitti come Rostam, sintesi di Eracle e di Achille, nel quale si celano riferimenti storici reali (forse il comandante militare del clan partico dei Sûrên, al quale si dovette la disfatta di Marco Licinio Crasso a Carre nel 53 a.C.), e vere e proprie figure storiche ammantate dal mito, come Eskander, ossia un Alessandro Magno iranizzato, perfetto modello di re e profeta. Questi campioni lottano contro creature mostruose (i dîv, o “demoni”), o sono impegnati in guerre estenuanti contro popoli ostili, rappresentati con connotati sovente demoniaci.
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Occorre però ricordare che la stirpe di Turan, ben sovrappostasi nella coscienza popolare iranica a quella degli invasori nomadi di lingua turca, nel poema di Ferdowsî altri non sono che i discendenti diretti di Fereydûn che si resero responsabili dell’omicidio del loro fratello minore Îrâj, prediletto dal padre e da costoro ucciso perché gli era stata assegnata la terra migliore: appunto, l’Iran.
Una tale inclusione non deve sorprenderci, volendo in realtà significare che nulla si qualifica come autentica, autonoma realtà se si trova al di fuori del senso di una prospettiva dotata di destino e portata universali. La grandezza del messaggio del poema ferdosiano risiede quindi propriamente nella potenza universale, quasi archetipica, delle sue narrazioni esemplari. Per meglio riassumere la portata dell’operazione culturale compiuta da Ferdowsî, ricordiamo con Johan Galtung che un’identità collettiva si costruisce alle intersezioni di tre elementi distinti: il mito, la predestinazione e il trauma.
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Il mito è qui la storia sacra dell’Iran, nonché il poema stesso; la predestinazione vive nel significato universale dell’architettura storicopoetica ferdosiana, come pure nella missione di preservare il retaggio iranico, mentre il trauma è iscritto nella differenza dall’identità: nel nemico e, in modo specialissimo, nel vulnus della sconfitta persiana durante l’invasione araba La storia della civiltà iranica stessa, dunque, ne viene letta al contempo come il mito, la predestinazione – tanto più decisa e chiara quanto più a ritroso procede riavvicinandosi ai proprî fondamenti – e il trauma della sconfitta, dell’invasione, della decadenza politica, religiosa e linguistica a vantaggio dello straniero arabo, visto come un barbaro incivile.
Infine, i rapporti tra Ferdowsî e il suo avido committente “turanico” Mahmûd di Ghazna si deteriorarono, a scapito della reciproca stima, in forza di cause a noi ignote e forse connesse all’immancabile e rovinosa attività delle malelingue di corte (il poeta concorrente ‘Onsorî?) nonché alle possibili letture di varî passaggi del poema in chiave antiturca, derivate dalla facile equazione tra i turanici e i turchi dell’Asia Centrale. Inoltre, Mahmûd, affascinato dalla bellezza di qualcuno dei brani che Ferdowsî gli aveva spedito, promise al poeta che gli avrebbe corrisposto la ricompensa di una moneta d’oro per distico non appena la sua opera fosse stata ultimata.
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Lo Shâhnâmeh consta di circa sessantamila distici, e quando giunse per Ferdowsî il momento di incassare le sessantamila monete d’oro, lo scontento sovrano gli offrì solo una frazione della somma, facendo comprensibilmente infuriare il poeta che aveva consacrato all’immane fatica ben trentacinque anni della propria vita.
Fu forse allora che Ferdowsî ricorse, come estremo rimedio a una frustrazione estrema, all’intima necessità di mirare con la propria opera oltre sé stesso? Comunque sia stato, il risultato di quei trentacinque anni di ispirata ricerca e geniale creatività è, ancora, lo Shâhnâmeh, che il vate di Tûs concluse con cocenti versi di autoesaltazione per l’offeso valore, saldo però di una fede incrollabile nell’avvenire della propria opera, che continuerà a brillare sulla propria forma inalterata. Lo Shâhnâmeh ha ormai 1010 anni compiuti, dacché Ferdowsî terminò la propria opera l’8 di marzo dell’anno 1010 d.C. Oggi, a 1010 anni dall’ultimo distico del poemafiume e a 1000 anni esatti dalla morte di Ferdowsî, speriamo ugualmente di poter celebrare, a quasi 86 anni da quel convegno a Tehrân, la memoria di uno dei più grandi poeti non soltanto della Persia, ma della storia, poiché, se Svetonio ci informa che il pessimo Nerone avrebbe detto, morendo: «Qualis artifex pereo!», non possiamo che elogiare l’esatta profezia che Ferdowsî schiuse a sé stesso, terminando il grande poema in un «Qualis artifex vivo! » Che artista in me vive!
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Il libro: Il libro dei Re – Shâhnâmeh
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La casa editrice Luni nasce nel 1992 con lo scopo di diffondere le idee che animano la riflessione italiana rendendo disponibili e accessibili al pubblico italiano molti testi del mondo Orientale spesso introvabili.
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