I l libro nasce con l’intento di restituire Mishima alla sua grandezza di scrittore, a mio avviso uno tra i dieci più importanti del Novecento. A livello mondiale, intendo, e non solo giapponese.
La sua arte e la sua poetica contengono ed esprimono stili e temi di portata universale, declinati però in una chiave particolare, doppiamente particolare: nipponica, ma anche personalissima. All’essere giapponese, di un Giappone pre-1945, dal sapore quasi feudale, la sua arte, dalla fortissima influenza occidentale, unisce un sottofondo, direi un sottosuolo, pullulante di demoni interiori tutti suoi. Demoni cattivi e demoni buoni.
L’insieme di questo magmatico crogiuolo ha partorito un universo letterario ed ideologico assolutamente unico, inimitabile. E quando dico questo, lo dico alla lettera, fuori da ogni retorica. Molte pagine di Mishima sono come ghiaccio fuso. Ti brucia dentro nel momento stesso in cui ti azzera la temperatura esterna. Talvolta produce l’effetto opposto. Dipende dal tema che tratta, dalla forma artistica prescelta (romanzo, racconto, dramma Nō o Kabuki riletto in chiave moderna, saggio di critica culturale e politica, sceneggiatura cinematografica, poesia, ecc.). Soprattutto per un autore come lui, che era enormemente versatile e quanto mai prolifico. Dipende dal personaggio che sceglie di rappresentare, dall’ambiente che intende mettere in scena. Una volta il suo stile e la sua scrittura sono dolci e teneri come neonati in fasce; un’altra volta sono duri e taglienti come la lama di una spada sferrata in battaglia. Il consiglio è leggere il più possibile di Mishima, non fermarsi ai soliti due o tre titoli (splendidi peraltro: Confessioni di una maschera; Il padiglione d’oro; Sole e acciaio). Ad esempio, è fondamentale scoprire i suoi racconti, numerosi, bellissimi (a partire da quelli raccolti in traduzione italiana con i titoli di La foresta in fiore; Morte di mezza estate; Atti di adorazione).
Forse è importante scoprirli persino prima della più celebre tetralogia del Mare della fertilità, l’ultimo, conclusivo atto dell’opera narrativa dello scrittore giapponese. Il tentativo di realizzare un’opera-mondo, qualcosa di simile, per capirsi, all’impresa compiuta da Marcel Proust con la Recherche. Il mio intento è stato sottrarre Yukio Mishima alle due nicchie in cui rischia di essere rinchiuso e infine sminuito, perché privato di tutte le restanti sue dimensioni di uomo ed artista. Anzitutto, quella di autore para-fascista, categoria che non gli si addice, proprio perché profondamente nipponico; semmai è un reazionario devoto alla figura sacra dell’Imperatore, qualcosa di medievale, intriso di un’etica samurai che si traduce poco e male in Europa ed Occidente. In sintesi, si riduce Mishima ad una versione orientale di D’Annunzio.
Per i suoi detrattori, una brutta copia, dalla psicologia folle e incomprensibile. In secondo luogo, certa critica ne ha sovra-evidenziato la dimensione di dandy omosessuale, una versione orientale di Oscar Wilde, con l’aggiunta del lato impegnato e tragico di un Pasolini. Mishima come un artista tutto teso ad indagare e rivendicare l’identità omoerotica, denunciando le maschere che il perbenismo borghese gli avrebbe imposto. In Italia, ma non solo, la sua memoria e la sua immagine paiono contese tra chi vuol farne un’icona fascia e chi un’icona gay, per così dire.
Due nicchie riduttive, che colgono solo una delle innumerevoli facce di quel prisma che volle essere e riuscì con tenacia a diventare. I due temi ci sono: l’ultra-nazionalismo antiamericano e il culto del corpo e dell’azione bellica, da una parte; l’omosessualità, un sensualismo estetico-decadente, morboso e persino violento, nonché l’indubbia esaltazione di una corporeità omoerotica che peraltro richiama un’antica tradizione nipponica (lo shudō), con alcune lontane affinità con la pederastia greca (παιδεραστία).
Il fatto è che l’arte di Mishima, così come la sua personalità, è talmente vasta che contiene moltitudini di temi e configurazioni, che sono persino contraddittorie tra loro. La mia impressione è che in Italia, ma anche altrove, non si sia ancora reso il dovuto omaggio ad una poetica molto più vasta di quanto forse lo stesso autore si rendesse conto, indubbiamente preoccupato molto della sua figura pubblica o quanto meno degli effetti che all’esterno la sua arte e la sua condotta personale potevano ingenerare. C’è però tutta quella ricerca interiore, quel travagliato ma lineare percorso esistenziale, che testimonia una personalità che infine vinse anche sul personaggio. O comunque all’uno va affiancato l’altro, la vittima Kimitake Hiraoka (il vero nome dello scrittore) al carnefice Yukio Mishima (nom de plume). In conclusione, il mio vuole essere un invito alla lettura, o rilettura, di uno dei più grandi scrittori dell’intero Novecento.
Danilo Breschi
Il libro:
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